Concetti di quantità appresi in 31 lingue diverse

 

 

LORENZO L. BORGIA & DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 10 settembre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

L’anima, essendo immortale e rinata molte volte,

 avendo visto le cose di lassù e quaggiù, tutto insomma,

 ha conoscenza di tutto. E non meraviglia che possa

rammentarsi della virtù e delle altre cose,

perché già le conosceva.

 [Platone, Menone, c. XV]

 

Non credendo, come Platone, nella reincarnazione multipla e diacronica di un’anima che conserva il ricordo delle esperienze vissute, ma piuttosto in una filogenesi evolutiva per selezione darwiniana, dobbiamo arrenderci all’evidenza di memorie della specie per le varie, straordinarie e sorprendenti facoltà cognitive già presenti nelle fasi più precoci della nostra vita.

A lungo ci si è chiesto se i bambini alla nascita avessero già innati dei concetti aritmetici o se tutto ciò che riguarda la comprensione e l’elaborazione logica basata sull’astrazione delle quantità fosse il prodotto dell’apprendimento post-natale, magari sviluppato parallelamente alle abilità cognitivo-linguistiche più studiate. Fino a qualche decennio fa, intuitivamente, la maggior parte dei ricercatori riteneva che il cervello dei neonati fosse sostanzialmente un apparato vergine, inizialmente privo di qualsiasi competenza, eccetto la capacità di apprendere. Ma, soprattutto grazie ai risultati in gran parte sorprendenti che venivano dallo studio delle abilità di varie specie animali[1], si è fatta strada l’idea che nell’organizzazione morfo-funzionale del nostro encefalo sia incluso un apparato specializzato per l’elaborazione delle quantità numeriche e in grado di guidare l’apprendimento delle abilità aritmetiche.

Sulla base di varie osservazioni, fu avanzata l’ipotesi che tale “modulo protonumerico” fosse attivo nel cervello del bambino prima del periodo caratterizzato dallo sviluppo esponenziale delle abilità linguistiche, o “fase dell’esplosione lessicale”, che convenzionalmente si colloca intorno all’anno e mezzo di età. Secondo tale ipotesi, nel primo anno di vita i bambini dovrebbero essere già in grado di comprendere alcuni aspetti elementari della realtà che la nostra mente istruita decodifica secondo le regole dell’aritmetica e della logica matematica.

Negli ultimi vent’anni i progressi compiuti in questo campo sono stati davvero notevoli e attualmente si dispone di un quadro abbastanza dettagliato delle epoche dello sviluppo in cui si esprimono le principali abilità connesse con la concettualizzazione numerica delle quantità e con le operazioni di calcolo elementare. Una parte considerevole della ricerca ha focalizzato i propri sforzi sullo studio dell’acquisizione delle parole denominanti i numeri, mentre poca attenzione è stata rivolta alla capacità di uso consapevole, appropriato e specifico di tutte le altre espressioni verbali attinenti alla quantità.

Allo scopo di fare luce su questo ambito di conoscenze dello sviluppo cognitivo mediato dalla simbolizzazione verbale, è stato condotto uno studio di proporzioni straordinarie, che ha visto la partecipazione di 40 istituti scientifici per l’analisi in 31 lingue diverse - facenti capo ad 11 diverse tipologie glottologiche - dell’acquisizione di termini non numerici riferiti alla quantità.

I risultati sono di sicuro interesse e meritano l’attenzione anche di coloro che ordinariamente non seguono gli sviluppi di questo specifico settore di studi.

(Katsos N., et al. Cross-linguistic patterns in the acquisition of quantifiers. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.1601341113, 2016).

Dei quaranta istituti di provenienza degli autori si citano i seguenti: Department of Linguistics and Basque Studies, University of the Basque Country, Vitoria-Gasteiz (Spagna); Faculty of Humanities/Logopedics, University of Oulu (Finlandia); Department of Psychology, HELP University (Malesia); Department of Speech Therapy, Comenius University, Bratislava (Slovacchia); Training Center for Foreign Languages and Diction, Tokyo University of the Arts, Tokyo (Giappone); Bergen Cognition and Learning Group, University of Bergen, Bergen (Norvegia); Faculty of Humanities Vytautas Magnus University, Kaunas (Lituania); Department of Second Language Acquisition, University of Maryland, College Park, Maryland (USA); Department of Psychology, University of Milano-Bicocca, Milano (Italia); Center for General Linguistics, Berlin (Germania); Department of Linguistics, University of Athens, Ilissia (Grecia); College of Law, Nihon University, Tokyo (Giappone); Laboratory on Language, Brain and Cognition, CNRS-University of Lyon, Lyon (Francia); Department of Psychology, Koç University, Istanbul (Turchia); Department of Communication Therapy, University of Malta, Msida (Malta); Department of Theoretical and Applied Linguistics, University of Cambridge, Cambridge (Regno Unito); Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, Massachusetts (USA); Department of Speech and Language Pathology, University of Zagreb, Zagreb (Croazia); Department of Linguistics and Translation, City University of Hong Kong (Hong Kong); Department of English Studies, University of Cyprus, Nicosia (Cipro).

L’ipotesi di lavoro degli autori dello studio è che l’ordine di acquisizione dei termini che esprimono quantità (quantifiers) è in relazione con elementi inerenti il significato di ciascun termine. Napoleon Katsos e gli altri cinquantacinque ricercatori hanno rilevato che 4 specifiche dimensioni di significato e l’uso dei termini quantificatori colgono una notevole similarità trans-linguistica nell’ordine cronologico di acquisizione in bambini esposti a 31 diverse lingue madri.

La capacità dei bambini di impiegare concetti di quantità è stata tradizionalmente studiata con lo sviluppo linguistico e la conseguente acquisizione delle parole denominanti i numeri[2].

Lo sviluppo delle abilità di comunicazione verbale segue una successione temporale standard in tutti i bambini normodotati ed è schematizzato secondo una cronologia distinta per le due fasi, percettiva e produttiva. Ad esempio, a 16 mesi il bambino comprende 170-230 parole e ne pronuncia 50; a 18 mesi comprende semplici frasi il cui significato dipende dall’ordine con il quale le parole si succedono ed è capace di usare la frase bi-termine (“mamma-acqua” per “voglio bere”); a 24 mesi pronuncia dalle 200 alle 300 parole; infine, a 36 mesi, quando la capacità di comprensione ed espressione di un filo logico comunicativo consente di tenere delle piccole conversazioni con l’adulto, il bambino è in grado di articolare 1000 parole. La specificità per la lingua madre comincia intorno agli otto mesi di vita per la percezione e ai 10 mesi per la produzione. Un’epoca notevolmente precoce, cosicché le principali modulazioni funtoriali[3] relative alla quantità sono apprese secondo la tipica struttura e le convenzioni dell’idioma parlato dai genitori.

Come si è già ricordato, lo sviluppo dei processi cognitivi relativi alle stime di quantità è stato studiato principalmente attraverso l’acquisizione delle parole che denominano i numeri, tuttavia le abilità aritmetiche sono state indagate indipendentemente dalla lingua già nei lattanti.

L’esame empirico della competenza numerica di bambini così piccoli ha richiesto notevoli progressi nei metodi e nelle tecniche di studio e, pertanto, appartiene ad un passato abbastanza recente. In precedenza, la psicologia dello sviluppo cognitivo era dominata dalle teorie di Jean Piaget, sicuramente ingegnose e plausibili, ma prive di un reale supporto sperimentale e giustificate da interpretazioni preconcette e discutibili di prove condotte su un numero ristretto di bambini. Gli errori di Piaget sono stati oggetto di studi ed incontri didattici degli esordi della nostra società scientifica, ed alcuni di essi sono stati efficacemente analizzati in sintesi da Stanislas Dehaene, a partire dalla dimostrazione risalente al 1967 da parte di Jacques Mehler e Tom Beaver, della fallacia del test piagetiano di conservazione numerica[4].

Di passaggio ci piace ricordare, col matematico Dehaene, l’impatto che le convinzioni di Piaget hanno avuto sui sistemi di istruzione nei paesi occidentali, incluso il nostro. Secondo tale visione “costruttivista”, le abilità logiche e matematiche sono progressivamente costruite dalla mente del bambino osservando, introiettando ed astraendo regolarità del mondo esterno a partire dallo stadio senso-motorio, durante il quale la mente sarebbe come una sorta di “foglio bianco”[5]. La teoria di Piaget implica uno sviluppo rigidamente ripartito per fasi: prima dei 6-7 anni il bambino non sarebbe pronto per l’aritmetica, in quanto non ancora in grado di concettualizzare il valore numerico; pertanto, l’insegnamento precoce dell’aritmetica sarebbe stato un’impresa inutile o addirittura dannosa. Per questo motivo ancora oggi, dopo mezzo secolo e numerose dimostrazioni dell’infondatezza di queste tesi, i bambini della scuola materna e di altri istituti che precedono la scuola elementare trascorrono ore a mettere in pila cubi colorati di dimensione decrescente: uno dei retaggi della convinzione della necessità di acquisire prima criteri logici, come quelli necessari ad ordinare oggetti geometrici o insiemi di elementi omogenei, per poi poter apprendere il concetto di numero[6]. Dehaene considera tale visione dello sviluppo cognitivo un “pessimismo irragionevole”[7], mentre per il nostro presidente le idee costruttiviste sono inconsapevolmente influenzate dal modo più frequente di uso della logica da parte della nostra coscienza dichiarativa secondo la cultura occidentale, e non tengono conto della logica evolutiva seguita dai cervelli e dalle loro funzioni nel corso della filogenesi.

Un punto di svolta decisivo, nella storia recente della ricerca sullo sviluppo delle abilità aritmetiche, è stato segnato dall’ormai famoso articolo pubblicato su Nature nel 1992 dalla giovane ricercatrice americana Karen Wynn su addizioni e sottrazioni operate dal cervello di bambini di soli 4 o 5 mesi. Lo studio, che destò scalpore anche presso il grosso pubblico, era riuscito con un semplice ma ingegnoso stratagemma a verificare indirettamente l’abilità di calcolo in infanti ancora alle prese con il divezzamento.

In particolare, l’idea di Karen Wynn per la costruzione del disegno sperimentale si era basata sull’abilità dei lattanti, dimostrata in precedenti studi, di rilevare eventi impossibili da un punto di vista fisico. Vari esperimenti avevano infatti dimostrato che nel primo anno di vita i bambini danno costantemente segni inequivocabili quando assistono ad eventi “magici” che violano le leggi fondamentali della fisica. Ad esempio, se vedono un oggetto rimanere sospeso a mezz’aria dopo aver perso la sua base d’appoggio, i bambini osservano la scena con attenzione incredula; se vedono due oggetti occupare la stessa localizzazione nello spazio appaiono notevolmente sorpresi; infine, se un oggetto viene nascosto dietro uno schermo, i piccoli sono stupiti di non vederlo quando lo schermo viene rimosso. Di passaggio, si può notare che questi esperimenti dimostravano che già intorno ai cinque mesi di vita, al contrario di quanto sostenuto da Piaget, “fuori dalla vista” non vuol dire “fuori dalla mente”. Questa ricerca aveva stabilito con sufficiente sicurezza che la sorpresa dei bambini aveva un equivalente costante ed affidabile nell’incremento del tempo di fissazione della scena.

La Wynn e i suoi collaboratori sfruttarono questo criterio per mettere alla prova le abilità di calcolo elementare dei lattanti. Impiegando dei pupazzetti riproducenti Topolino (Mickey Mouse), un piccolo teatrino di burattini e uno schermo rotante, creavano una sequenza di eventi che simulava in forma concreta l’addizione 1 + 1 di due pupazzetti, mascherata dallo schermo e poi rivelata nell’esito: quando si rappresentava la situazione 1+1=1, il tempo di fissazione cresceva di circa un secondo rispetto al normale apparire di due pupazzetti (1+1=2). Nonostante la costanza del risultato, si sarebbe potuto obiettare che la fissazione protratta di un singolo Topolino avesse una causa diversa da quella dell’esito inaspettato. Allora la Wynn condusse un esperimento riproducente 2-1=1: in questo caso il tempo di fissazione era fisiologico, mentre quando si proponeva la sequenza 2-1=2, i bambini fissavano i due pupazzetti per un tempo più lungo, proprio come accadeva per il singolo Topolino quando l’addizione era sbagliata.

A voler fare l’avvocato del diavolo, come ebbe a dire la stessa Karen Wynn, questi esperimenti non dimostrano che i lattanti compiano calcoli esatti, ma soltanto che essi possono sapere che la numerosità di un insieme cambia quando sono aggiunti o sottratti degli oggetti. Perciò, possono sapere che 1+1 non può dare 1, e 2-1 non può essere ancora 2, senza conoscere l’esatto risultato delle operazioni. Per verificare questa interpretazione, la Wynn replicò con lattanti di 5 mesi la rappresentazione dell’addizione 1+1, con tre possibili risultati: 3, 1 e 2. Sia con 3 che con 1 per risultato, la reazione dei lattanti fu quella della sorpresa con il prolungamento della fissazione, e solo con 2 si registravano i tempi di fissazione fisiologica. Non era azzardato affermare che i bambini sapevano che 1+1 non fa né 1 né 3, ma esattamente 2.

All’epoca in cui sono stati realizzati questi esperimenti non si disponeva ancora dei metodi sofisticati e precisi impiegati negli anni seguenti per lo studio diretto dell’attività cerebrale di neonati e lattanti in risposta ad esperienze percettive, ma a questo studio va riconosciuto il merito di aver rilevato per la prima volta quanto è stato poi accertato con maggior rigore e specificità in tempi più recenti[8].

Ci è sembrato opportuno riprendere questi primi esperimenti sulle abilità aritmetiche nella fase di sviluppo preverbale, per meglio caratterizzare la differenza con l’analisi della cognizione della quantità strettamente associata e dipendente dall’apprendimento linguistico. Se si pensa a termini non numerici esprimenti quantità, quali alcuni, qualche, pochi, molti, prevalentemente, tutti, troppi, ci si rende conto di quanto siano strettamente connessi con i concetti acquisiti attraverso l’apprendimento della lingua madre e quanto possano essere influenzati da caratteri tipici di una data lingua. Grazie alla ricerca più recente si sa molto circa l’ordine di acquisizione delle parole che denominano i numeri, sui sistemi cognitivi e percettivi implicati in questo apprendimento e sulla pratica che modella queste acquisizioni, ma, come osservano gli autori dello studio qui recensito, veramente poco è noto circa i termini quantificatori non numerici.

Napoleon Katsos, Ira Noveck ed altri 54 colleghi, hanno considerato quanto i sistemi e le pratiche che supportano l’acquisizione delle parole indicanti i numeri possano essere applicati all’acquisizione dei termini quantificatori, accertando che i due domini appaiono in gran parte indipendenti.

Prendendo le mosse da tale rilievo, i ricercatori hanno ipotizzato che l’acquisizione cognitiva e comunicativa dei quantificatori dipenda da un insieme di fattori associati allo specifico significato di ciascuna di queste parole.

Allo scopo di verificare tale supposizione, sono stati studiati 768 bambini di 5 anni e 536 adulti parlanti 31 lingue diverse, riconducibili a 11 differenti ceppi linguistici. In particolare, l’analisi è consistita nella valutazione della competenza linguistica per le seguenti espressioni verbali: all, none, some, some…not, e most[9], mediante metodi noti e verificati.

L’esame, per il cui dettaglio si rinvia alla lettura integrale del testo originale, ha rivelato un ordine temporale di acquisizione simile per i parlanti di tutti gli idiomi (ordine temporale trans-linguistico), che è stato spiegato dagli autori dello studio sulla base di quattro fattori legati al significato e all’uso delle parole indicanti quantità. In altre parole, anche per i quantificatori è possibile riconoscere una generale e comune base neuroevolutiva.

Infine, lo studio ha anche rilevato che caratteri specifici di una particolare lingua o di un soggetto in fase di sviluppo, quali la concordanza negativa o il sesso del bambino, sono fattori significativi per prevedere una variazione.

Concludendo, possiamo notare l’estrema semplicità di un lavoro il cui valore precipuo consiste nel cimento esteso a così tante lingue e ceppi linguistici da dissipare definitivamente ogni dubbio e confermare l’esistenza di un programma universale di sviluppo neurobiologico in grado di conferire, con la maturazione progressiva del cervello, tutte le funzioni concettuali di base per la cognizione e la comunicazione umana.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza ed invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Diane Richmond

BM&L-10 settembre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Si pensi agli esperimenti che dimostravano la capacità di riconoscere e distinguere le quantità da parte di varie specie aviarie, dopo la scoperta delle abilità aritmetiche dei mammiferi, dai topi alle scimmie.

[2] Questo rapporto può essere studiato secondo i principi di un nuovo campo di studi, ossia quello dell’unificazione semantica: il significato delle parole udite, ad esempio, è assemblato in meno di 500 ms in un significato composto, mediato da una rete di aree cerebrali che lo collega con le principali informazioni coerenti.

[3] Nell’uso convenzionale derivato dalla neuropsicologia, gli elementi diversi da verbo e sostantivo che compongono le frasi (in particolare articoli, preposizioni, avverbi, congiunzioni) sono denominati funtori.

[4] Nell’articolo pubblicato su Science i due ricercatori, allora al MIT, dimostrarono che i risultati della prova concepita da Piaget erano pesantemente influenzati dal contesto e dal livello di motivazione dei bambini. Per l’esposizione sintetica degli errori di Piaget riguardo lo sviluppo cognitivo, si veda: Stanislas Dehaene, The Number Sense, pp. 44-47, Penguin Books, 1999 (first published in the USA by Oxford University Press, 1997).

[5] L’immagine, così come era stata originariamente proposta da Virgilio nelle Bucoliche, era riferita soprattutto alla straordinaria capacità di registrare e ricordare contenuti di esperienza.

[6] Così si esprime Piaget, ma usare un concetto di quantità corrispondente ad un numero, come fa un piccione che sa che due semi sono più di uno e meno di tre, non vuol “avere il concetto di numero”, ossia conoscere il significato astratto ed assoluto di ciò che la parola numero designa (sul quale, tra l’altro, non vi è accordo fra i matematici), ma semplicemente avere abilità di riconoscimento e logiche per elaborazioni di valore con le piccole quantità.

[7] Cfr. Stanislas Dehaene, Op. cit., p. 44.

[8] Per i metodi di studio mediante ERP, MEG, fMRI e NIRS che hanno letteralmente rivoluzionato il campo degli studi su cognizione e comunicazione di neonati e lattanti, si veda in Note e Notizie 02-07-16 Disturbi di apprendimento verbale previsti dalla discriminazione uditiva.

[9] Si è preferito lasciare in inglese questi termini, che tra l’altro non hanno bisogno di traduzione, perché sono stati impiegati quale riferimento comune a tutti gli idiomi studiati, anche quelli con una struttura che non prevede equivalenti diretti di questi funtori.